venerdì 24 ottobre 2014

DIO NON PUO' ESISTERE. CONCLUSIONE RICAVABILE DAL SINODO DEI VESCOVI. LA GIUSTIFICAZIONE DELLA PENA DI MORTE DALL'ANTICHITA' AL PAPA PIO XII

Sinodo che si è spaccato riguardo al tema dell'omosessualità arrivando a conclusioni fumose e contraddittorie per nascondere la spaccatura. Una minoranza è rimasta giustamente sulle posizioni tradizionaliste della Chiesa, che ha impedito a questo papa di andare oltre una "comprensione" che tuttavia esclude l'accettazione. Io mi domando: dove stava lo Spirito Santo per illuminare la mente del papa, dei cardinali e dei vescovi? Era latitante o assente ingiustificato? 
Non basta. Riguardo alla pena di morte il papa, andando oltre la cancellazione della pena di morte già abolita nel 1999 dal Catechismo della Chiesa, ha detto che "l'ergastolo è una pena di morte nascosta". Gli si può dare ragione quando condanna il carcere preventivo anche nel caso in cui non vi siano prove certe o non indiziarie di condanna. E' il caso in cui uno sia accusato di omicidio. Invece si fa abuso anche in Italia del carcere preventivo con la scusa del pericolo di inquinamento delle prove. 
Ma per quanto riguarda la condanna della pena di morte la Chiesa ha rinnegato una tradizione che va da S. Paolo a PioXII e che, nel silenzio, non è stata rinnegata sino a Paolo VI. Ci è voluto Giovanni Paolo II per far togliere dal Catechismo la pena di morte. Espongo quanto pensavano al riguardo i maggiori pensatori tra cui molti esponenti della dottrina cristiana. Dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.

Sul diritto naturale si fonda la giustificazione della pena di morte. La condanna della pena di morte discende dalla solita confusione tra morale e diritto, che porta lo Stato a sostituirsi alla vittima innocente che non avrebbe voluto moralmente perdonare, con la conseguenza contraddittoria che l’assassino avrebbe un diritto naturale alla vita maggiore rispetto a quello della vittima. Coloro che, “allignando nella palude dell’emotivo”,1 gonfi di sentimento, ma privi di ragione, attribuiscono ipocritamente alla pena una funzione rieducativa (come si desume dall’art. 27 della Costituzione italiana), e non afflittiva, ritengono barbari i sostenitori della pena di morte. 

Tra questi barbari dovrebbero essere inclusi allora anche il fondatore del cristianesimo, S. Paolo (che nell’Episola ai Romani riconobbe al governo, anche pagano, l’jus gladii, cioè il diritto di spada), nonché il maggiore Padre della Chiesa, S. Agostino, il maggiore dottore di essa, S. Tomaso, il padre del liberalismo moderno, Locke, il maggiore filosofo dell’Illuminismo, Kant, sino a giungere a Pio XII, che, proposto per la beatificazione da Giovanni Paolo II, difese una concezione vendicativa della pena e giustificò la pena di morte vedendo nel disprezzo dell’ordine pubblico un’opposizione a Dio (Acta Apostolicae Sedis 47, 1955). Pio XII. l’ultimo grande papa. Dopo di lui il caos nella Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, facendo visita ad un carcere, invitò i carcerati a sopportare la loro croce, come se i delinquenti di ogni specie potessero essere considerati vittime e non carnefici. Il buonismo che uccide la giustizia.

Platone nel Protagora afferma che è comando divino l’uccidere gli individui incapaci di giustizia, in quanto sono una piaga sociale. E nelle Leggi (L. IX) è prevista la pena di morte per gli omicidi volontari e l’esilio per due o tre anni per quelli involontari, essendo ritenuti tali quelli causati da uno stato d’ira motivato, che, tuttavia, non non vale come attenuante nel caso di patricidio o matricidio. Aristotele (Etica nicomachea, V, 5), pur sfiorando soltanto l’argomento, scrive che “alcuni ritengono che la legge del taglione sia assolutamente il giusto; e così affermarno i Pitagorici: essi infatti definirono in senso assoluto il giusto come il rendere agli altri il contraccambio. Ma la legge del taglione non si accorda con la giustizia distributiva né con quella regolatrice”, cioè compensativa del danno subito. Infatti subito dopo Aristotele spiega che è più grave colpire un magistrato perché in tal caso chi lo colpisce dovrà non soltanto essere colpito, ma anche punito. Dunque Aristotele, benché non accenni espressamente alla pena di morte, chiarisce che la legge del taglione è la base della giustizia. Rimane sottinteso che l’assassino merita la morte che egli ha inflitto ad altri.

Seneca, autore delle Lettere a Lucilio, che possono essere considerate il capolavoro della filosofia morale di ogni tempo, scrive nel De clementia che la legge nel punire i delitti può applicare anche la pena di morte, “estirpando i malfattori dal corpo sociale per assicurare la tranquilla convivenza degli altri”.

Il diritto romano consolidò la teoria che la giustizia dovesse ritenersi pubblica vendetta nei confronti di chi attentasse al bene comune, identificato con l’utilità sociale. Nell’età moderna il diritto romano fu elaborato da filosofi e giuristi secondo l’indirizzo del diritto naturale, per trovare in esso la giustificazione della libertà di pensiero, ma anche quella della pena di morte in difesa dell’ordine pubblico2

Nelle Lettere3Agostino evidenzia come il perdono possa avere conseguenze negative su chi, invece di correggere la propria condotta, incrudelisca nella sua arroganza, oppure, correttosi nella sua condotta, induca tuttavia altri ad approfittare sperando in eguale impunità. Riprendendo il pensiero di S. Paolo, Agostino scrive: “Se fai il male, abbi paura, poiché l’autorità non senza ragione porta la spada; essa infatti è strumento per infliggere punizione ai malfattori in nome di Dio”. Inoltre S. Agostino scrisse nel De libero arbitrio che “se l’omicidio consiste nel distruggere o uccidere un uomo, talvolta si può si può uccidere senza commettere peccato; questo vale per il soldato col nemico, per il giudice o il ministro con coloro che fanno del male”.

In Agostino prevale la teoria della prevenzione come giustificazione della pena di morte. Una funzione prevalentemente retributiva, oltre che emendativa e di prevenzione, ha, invece, la pena di morte per S. Tomaso, che nella Summa theologica (II, II, q. 68, a.1) giustifica la pena come vendetta che si esercita sui malvagi in quanto questi usurpano i diritti di Dio e nella Summa contra Gentiles (III, cap. 146), dopo aver scritto che la vita del delinquente deve essere sacrificata, allo stesso modo in cui “il medico taglia a buon diritto e utilmente la parte malata, aggiunge che “uccidere un uomo che pecca può essere un bene come uccidere un’animale nocivo. Infatti un uomo cattivo è peggiore e più nocivo di un animale nocivo”. Vi è dunque da domandarsi quale credibilità possa avere oggi la Chiesa, che, rinnegando circa 2000 anni di dottrina, da S. Paolo ad oggi, ha abolito nel 1999 dal Catechismo la pena di morte. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale (dettata dal sentimento), ma è di fatto espressione di inferiorità giuridica, causata dalla corruzione del diritto da parte della morale.

Montaigne nei Saggi (1580) scrive, giustificando la pena di morte, che “non si corregge colui che è impiccato; si correggono gli altri per mezzo suo”. Tale giustificazione prescindeva da una concezione retributiva, e perciò da diritto naturale, perché Montaigne, esprimendo un relativismo culturale, faceva discendere le leggi dal costume di un popolo, scrivendo che “le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono invece dal costume…Per cui accade che quello che è fuori dai cardini del costume lo si giudica fuori dei cardini della ragione”.4 Non si capisce pertanto come egli potesse pretendere di impiegare la ragione per giudicare i costumi. conseguiva Montesquieu ne Lo spirito delle leggi (1749), dove si dà la prima chiara formulazione della divisione dei poteri, scrive che “la pena di morte è provocata dalla natura delle cose…Essa è come il rimedio della società malata”.

Rousseau nel Contratto sociale (1762) considera la pena di morte entro una concezione retributiva sul presupposto che il cittadino è obbligato ad obbedire alla volontà generale (della maggioranza) quale condizione della conservazione del patto sociale, che implica la conservazione della vita dei contraenti. Ma chi vuole conservare la vita con il contributo degli altri deve essere anche disposto a morire dal momento in cui cessa di essere membro della società perché ne è divenuto nemico con il suo delitto. La conservazione della società in tal caso è incompatibile con quella del criminale.

Scrive Rousseau nel Contratto sociale che “è appunto per non essere vittime di un assassino che noi consentiamo a morire se diventiamo tali…Ogni malfattore diviene a causa dei suoi delitti nemico della patria; cessa di esserne membro; a questo punto la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua; bisogna che uno dei due perisca”.

Ha scritto Kant: “Se poi egli ha ucciso, deve morire. Qui non esiste alcun altro surrogato che possa soddisfare la giustizia. Non c’è alcuna omogeneità tra una vita per quanto penosa e la morte; e di conseguenza non esiste altra eguaglianza tra il delitto e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale” (Metafisica dei costumi, parte II, sez. I, nota). 5

E Schopenhauer, utilizzando contro Kant la seconda forma dell’imperativo categorico dello stesso Kant (“agisci in modo da trattare sempre l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di tutti gli altri, anche come fine, mai soltanto come mezzo”, osservava, rincarando la dose, che essa era infondata alla luce della giustificazione della pena di morte: “A quella formula ci sarebbe da obiettare che il delinquente condannato a morte è trattato, e giustamente, soltanto come mezzo e non come fine, come mezzo indispensabile per confermare alla legge, se attuato, la forza deterrente, nella quale appunto consiste il suo fine”.6 In sostanza, per Schopenhauer l’assassino non fa parte dell’umanità, e dunque la sua vita cessa di essere un fine per diventare solo un mezzo della forza deterrente della legge. Ma, in effetti, Kant era alieno da qualsiasi concezione utilitaristica della pena, come quella di Schopenhauer, che vedeva nella pena un mero mezzo per ottenere un bene per la società. Per Kant è lo stesso delitto che richiede una proporzionata pena come imperativo categorico non potendo il condannato a morte essere utilizzato come esempio che serva da deterrente. Si può dire che per Kant la pena di morte si giustifica sulla base della considerazione che l’uomo, anche quando è un criminale, non può mai essere considerato un mezzo, per cui lo stesso criminale dovrebbe richiedere per sé la pena di morte per riscattarsi come uomo.

Verso la fine del ‘700 Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) in Genesi del diritto penale (1791), considerando che il diritto penale trova la sua giustificazione nella difesa della società e nella salvaguardia dei cittadini, ritenne che la pena giusta fosse quella che meglio garantisse la conservazione dei cittadini. Pertanto qualsiasi pena era giustificata. E in Memoria sulle pene capitali (1830) scrisse che “non si tratta più di vedere se esista il diritto di punire sino alla morte: ma bensì se esiste il bisogno di esercitare questodiritto…Chi commette un delitto commette un’azione senza diritto…Dunque il male irrogato per difesa necessaria al facinoroso è un fatto di diritto. Dunque se questo male dovess’essere spinto fino alla morte del facinoroso, questa morte sarebbe data con diritto…Voler poi negare indefinitivamente questo bisogno sarebbe lo stesso come dire in chirurgia non potersi dar il caso di dover fare l’amputazione di un membro”. Romagnosi riteneva che la galera, pur senza lavoro, fosse per molti non un castigo ma un premio.

Hegel vide nel delitto il prevalere della volontà del singolo sulla volontà universale, per cui la pena consiste nel rovesciare la volontà del reo restaurando la volontà universale, che non significa recuperare il delinquente.7

In Lineamenti di filosofia del diritto (1821) Hegel espose, come Kant, una concezione retributiva della pena, che ha la funzione di restaurare l’ordinamento violato. Criticando anch’egli, come Kant, Beccaria, ricononobbe allo Stato il diritto di applicare la pena di morte, giacché “l’annientamento del diritto è taglione, senza per questo essere vendetta”.8

L’abolizionista si trova in compagnia di Robespierre, che, prima di cambiare idea pochi anni dopo, scriveva nei Discorsi sulla pena di morte, avvalendosi dell’argomento del possibile errore giudiziario, che la pena di morte era un eccesso di severità, e precisava: “un vincitore che tagli la gola ai suoi prigionieri è definito un barbaro”. Egli si poneva contro il Codice penale approvato dall’Assemblea costituente nel 1791, che riconfermava la pena di morte prevista dalle leggi dell’ancien regime. L’abolizionista si trova in compagnia anche dell’anarchico Max Stirner, che nell’opera L’unico e la sua proprietà 9 concepiva il diritto come come legato all’arbitrio del singolo, sì da poter scrivere: “Se tu riconduci il diritto alla sua origine, in te, esso diventerà il tuo diritto, e sarà giusto ciò che per te è giusto”. La conseguenza è che per Stirner il crimine esiste soltanto perché esiste il dominio della legge che si ammanta di sacralità, e non viceversa, e la punizione si giustifica soltanto perché lo Stato si arroga il diritto di esercitare una vendetta chiamata punizione. Si può vedere come il ragionamento degli abolizionisti nasconda le stesse premesse di una concezione anarchica dello Stato, il cui diritto di punire si fonderebbe unicamente su una pretesa sacralità della legge. Stirner non si avvide che, partendo dalla sua concezione anarchica dell’individuo, a difesa dell’unicità della vita, intesa come espressione di solo egoismo, avrebbe dovuto ritenere normale l’omicidio, e innaturale l’intervento della legge a difesa della vita dello stesso egoista. L’assolutizzazione dell’individuo porta a giustificare, contraddittoriamente, il suo annullamento sulla base di una concezione della legge intesa come espressione della forza, e non come difesa del diritto naturale all’autoconservazione.

Il famoso Dei delitti e delle pene (1764) di Beccaria nell’escludere la pena di morte esprime una concezione contrattualistica e utilitaristica della legge,10 e pertanto non può che escludere una concezione retributiva della pena. Secondo Beccaria dal contratto sociale non deriva il diritto dello Stato di applicare la pena di morte perché gli uomini non possono avere contrattato ciò, dando agli altri il potere di ucciderli. Ma si noti come l’affermazione di Beccaria sia, oltre che illogica, soltanto una petizione di principio. Infatti gli uomini che avessero escluso la pena di morte sin dalla fase del contratto sociale per timore di essere uccisi avrebbero ammesso di aderire contraddittoriamente (perché in malafede) al contratto, avendo già d’allora intenzione di uccidere, mentre il contratto nasceva perché nessuno potesse più rimanere vittima degli altri. Chi non avesse avuto intenzione di uccidere non avrebbe avuto paura di richiedere allo Stato la pena di morte, per maggiore tutela della propria vita, ma, al contrario, l’avrebbe impedita chi avesse avuto in animo di uccidere, pur aderendo al contratto. Perciò l’esempio di Beccaria giustifica solo la malafede.

Per Beccaria la pena ha la funzione di distogliere gli altri dal commettere eguale reato, mentre gli è estranea una concezione emendativa della pena, che serva al reo per redimersi. Ma si tratta di una giustificazione logicamente insostenibile, giacché 1) o tutti si dovrebbero sentire distolti; 2) o la pena non serve a tutti quelli che non si siano sentiti distolti, mentre per tutti gli altri sarebbe inutile.

La pena serve soltanto a quelli che non si sentano distolti. Ma questa è una tautologia che non spiega alcunché.

Le argomentazioni di Beccaria contro la pena di morte sono dunque risibili. Egli scrive: “Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi…Non è dunque la pena di morte un diritto…ma è una guerra della nazione con un cittadino, che giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere”. Quale enorme confusione di idee! Da una parte un assassino viene considerato moralisticamente simile alla vittima innocente, dall’altra si presenta come negativo ciò che è positivo, che lo Stato, come in una guerra, ritenga necessario o utile usare le armi da guerra contro il nemico. L’argomentazione di Beccaria si rivolge contro di lui. Ma lungi da qualsiasi considerazione filosofico-umanitaria l’illuminista Beccaria è indotto a chiedere per il carcere perpetuo “una schiavitù perpetua! “fra ceppi o le catene”, in cui “il disperato non finisce i suoi mali”, come, invece, con la pena di morte. Beccaria condanna lo Stato che compra le delazioni e impone taglie: “Chi ha la forza di difendersi non cerca di comprarla. Di più, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di virtù, che ad ogni minimo vento svaniscono nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono…Invece di prevenire un delitto, ne fa nascere cento. Questi sono gli espedienti delle nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un edificio rovinoso che crolla da ogni parte”.11 D’altra parte, Beccaria (Dei delitti e delle pene, cap. XXVII) continuò a giustificare la pena di morte se “la morte di qualche cittadino diviene necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini tengon luogo di leggi”.

Bisognerebbe dunque concludere che Beccaria non sarebbe oggi contrario alla pena di morte almeno per i delitti di mafia, in cui “i disordini tengon luogo di leggi”, o contro i trafficanti di droga, cioè di morte, siano collegati o non con la mafia. La mafia non può essere combattuta democraticamente, ma sospendendo nelle regioni mafiose ogni forma di rappresentanza politica, esposta localmente ai ricatti mafiosi, e ogni forma di garanzia costituzionale nei confroni delle famiglie mafiose, a cui soggiace anche tutto l’apparato giudiziario, dalle guardie carcerarie ai direttori delle carceri sino ai magistrati che dovrebbero giudicare i criminali mafiosi, i quali smetterebbero di comandare e ricattare anche dal carcere soltanto se venissero giustiziati con la pena di morte. Soltanto da morti non potrebbero più comandere e ordinare altre uccisioni. Si sa quali sono le famiglie mafiose, e quando si peschi dentro di esse si pesca sempre bene, senza andare per il sottile. Uno Stato che non voglia intendere ciò è o buffone o connivente con questa feccia di specie soltanto biologicamente umana. Merito principale di Beccaria è l’avere evidenziato la necessità di “una proporzione tra i delitti e le pene”. Ma proprio tale proporzione sarà rivendicata da Kant contro Beccaria per giustificare la pena di morte.

Oggi nella dottrina penale americana prevale una concezione retributiva della pena che giustifica la posizione di Kant basata sul principio di eguaglianza. La legge del taglione (lex talionis) raccomanda di “fare agli altri ciò che questi hanno fatto a te”, come rafforzativa della regola aurea secondo cui bisogna “fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (norma evangelica). In base alla lex talionis si ripristina l’eguaglianza che è stata turbata dal crimine E’ questa la tesi di J. H. Reiman.12 In base a tale principio il crimine è un attacco alla sovranità dell’individuo che pone il criminale in una posizione di illegittima sovranità su un altro. La vittima ha il diritto, e la società il dovere, di rettificare la posizione del criminale riducendone la sovranità nello stesso grado. La vittima avrebbe avuto il diritto, ma non il dovere, di perdonare a chi ha attentato al suo diritto naturale, ma rispettando il principio che la vita della vittima non possa essere valutata come inferiore rispetto a quella del suo uccisore. Una pena alternativa come l’ergastolo (che in Italia non esiste più) non sarebbe in accordo con il principio di umanità della pena e dell’ipocrita funzione rieducativa di essa. E’ stato anche scritto: “Chi non avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un processo nel quale la vittima non può più udire la propria voce?…Ma vi è di più, chi uccide con il suo delitto diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo a ognuno un po’ di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo priva di una parte della sua vitalità…L’esclusione della pena di morte per omicidio è un portato di maggiore civiltà o non è invece il segno di una minore sensibilità morale e di una meno chiara percezione del vero?…Chi con deliberato proposito uccide un uomo deve essere a sua volta ucciso dalla società costituita, che non può sottrarsi al suo obbligo senza macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che chi uccida non venga a sua volta ucciso? E che gli si infligga invece una pena di carcere che sarà mite in ragione di come saprà difendersi contro un morto”,13 grazie ad avvocato prezzolato o al solito psicologo o sociologo di turno pronto a trovare tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si vuole spesso dimostrare che l’assassino nel momento del crimine fosse incapace di intendere e volere. Ma poi riacquista sempre la lucidità! Si pretende assurdamente che il criminale si riconcili con la società senza tenere in alcun conto la vita dell’ucciso. Gli abolizionisti sono proprio coloro che ipocritamente o disonestamente tengono in minor valore la vita umana, stando a difesa degli assassini. Questo discorso vale anche per Amnesty International, che, come direbbe Hegel, alla ragione sostituisce la “brodaglia del cuore” (Lineamenti di filosofia del diritto, pref. ): associazione di saccenti presuntuosi e arroganti che credono di avere un cervello migliore di quello di tutti i pensatori che abbiamo citato. E, a parte la giustizia che bisogna rendere alla vittima, anche se morta, vi è un superiore interesse della società a liberarsi degli assassini che a ritenere “sacra”, come stupidamente si dice, anche la vita di un criminale.

T. Sellin14volle dimostrare con un’indagine statistica che la pena di morte negli Stati Uniti non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte per omicidio. Gli rispose Isaac Ehrlich,15 che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre, avvalendosi di diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il periodo 1935-69 ciascuna esecuzione capitale aveva prevenuto il verificarsi di sette o otto omicidi in più. Infatti il criminale, in base alle offerte di mercato, conforma la sua condotta al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte diminuisce il desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono argomenti utilitaristici che non scalfiscono minimamente il principio secondo cui la vita dell’assassino non deve valere più di quella della sua vittima.

Chi è favorevole alla pena di morte ormai non ha più il coraggio di dirlo pubblicamente o non trova spazio, in Europa, soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i mass media, operando una dispotica censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di morte sono dei barbari, che non debbono corrompere i civili. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale, ma è di fatto soltanto espressione di inferiorità giuridica. Da notare come gli stessi mass media, essendo totalmente privi di alcuna capacità o volontà di discutere sul piano razionale, essendo capaci di fare soltanto affermazioni moralistiche ed emotive contro la pena di morte, gonfi di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale nasce soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non trovano altro mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che impiegare la telecamera per far vedere il condannato che soffre o l’ambiente della camera della morte, approfittando del fatto che non vi è mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono misurarsi con il gran numero di sostenitori della morte facendo finta che non esistano o impediscono un pubblico confronto, certamente timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei disonesti arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del progresso civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha seri argomenti contro di essi.

Sia almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se sia disposto a perdonare il suo eventuale assassino, perché lo Stato non si sostituisca alla volontà della vittima innocente.16 E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela alla vita dell’assassino soltanto perché questo è riuscito ad anticipare la vittima.17 Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire prima di una sentenza.
1 Carlo Nicoletti, Sì, alla pena di morte?, Cedam 1997, p. 60. L’autore soltanto per ragioni di cautela ha preferito aggiungere il punto interrogativo al titolo del suo testo. Egli ritiene che la concezione emendativa, cioè quella che pone come scopo della pena il recupero del colpevole, sia profondamente utopica e ipocrita perché non tiene conto delle condizioni e dei luoghi di pena, per cui “una carceraria città del sole costituisce niente di più che una contraddizione in termini” (p.9). Tale concezione è soltanto una dichiarazione di intenti, in quanto “il ravvedimento è sempre e comunque un fatto individuale” (p.11). Quanto alla concezione della pena come prevenzione, essa è cinica, perché, prescindendo da ogni implicazione morale, ha come fine quello di isolare chi costituisce un attentato all’ordine sociale. Tuttavia l’autore, professore di diritto processuale civile a Cagliari, ritiene che quest’ultima concezione “è quella che perfettamente si attaglia alla pena di morte” (p. 16), quando pare, invece, evidente che sia la concezione retributiva, per la corrispondenza che essa richiede tra il delitto e la sua punizione. L’autore precisa che la pena non può essere assimilata alla vendetta perché quest’ultima può essere accompagnata dal piacere di restituire il male. Ma allora dovrebbe escludersi anche il piacere della giustizia.



2 Sulla pena di morte nella storia occidentale cfr. di Alberto Bandolfi Pena e pena di morte. Temi etici nella storia, Edizioni Dehoniane 1985; di Italo Mereu La morte come pena. Saggio sulla violenza legale, Donzelli 1982. L’esame che quest’ultimo testo fa di tutti gli eccessi, non escluse diverse forme di tortura, nell’applicazione della pena di morte come uso politico per sbarazzarsi degli avversari non deve essere confuso con il discorso sui principi.

3 Agostino, Lettere, II, Città Nuova, 1971, pp. 541-47.

4 Saggi, Adelphi, 1982, p. 150.

5 Kant (ibid.) accusò Beccaria di “affettato sentimentalismo”.

6 Il fondamento della morale, op. cit., p. 164.

7 Filosofia dello spirito jenese, Laterza 1984, p. 139

8 E’ evidente che Hegel, distinguendo la legge del taglione dalla vendetta, considera quest’ultima soltanto come espressione di una punizione privata, che può non rispettare la proporzionalità tra delitto e pena. Ma in sostanza anche la pena comminata dallo Stato non può non essere considerata anch’essa una vendetta, se la pena rientra in una concezione retributiva come quella di Hegel.

9 In Gli anarchici, a cura di G.M Bravo, Adelphi 1970, pp. 510 sgg.

10 Il contrattualismo non implica necessariamente l’utilitarismo come negazione di un diritto naturale. In Hobbes, per esempio, la concezione contrattualistica si accorda con quella utilitaristica, ma anche con una concezione giusnaturalistica che vede la legge naturale non dipendere dal contratto ma precederlo. Così in Locke la concezione contrattualistica si accorda con il diritto naturale alla libertà e alla proprietà (Secondo Trattato del governo civile (a cura di Luigi Pareyson) , Utet 1982, pp. 229-63.

11 Oggi il riferimento fa all’impiego, da parte dello Stato, dei cosiddetti “pentiti”, premiati per le loro “confessioni”. E’ il risultato, direbbe Beccaria, di uno Stato che, non avendo la forza di difendersi, a causa del suo garantismo nei riguardi delle organizzazioni criminali, cerca di comprarla, mandando in rovina l’edificio dell’ordinamento giuridico, fondato sulla proporzionalità della pena al delitto.

12 Justice, Civilation and the Death Penalty, Justice 1991.

13 Carlo Cetti, Della pena di morte. Confutazione a Beccaria, Como 1960, pp. 12-13.

14 The Death Penalty, The American Law Insitute, Philadelphia 1959.

15 The deterrent effect of punishment: a question of life and death, American Economics Reviw, 65, 1975.

16 In questo senso si può ritenere ampliata la considerazione svolta da Platone nelle Leggi (IX, 869), dove è previsto che in caso di patricidio (o matricidio) – il delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la madre) possa avere il tempo, prima di morire, di perdonare il figlio. In tal caso il patricidio (o matricidio) sarà ritenuto involontario e il colpevole dovrà soltanto purificarsi.

17 Il nostro ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88), che, riprendendo il pensiero di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha il diritto di punire i delitti (II Trattato del governo civile, II, 11), osserva, contro Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura si perde il diritto alla vita quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il diritto di uccidere il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo diritto si trasferisce da lui alla società. D’altra parte, non si aggiunge mai che Beccaria continuò a giustificare la pena di morte per quei delitti che minano l’ordine sociale. Riferimento odierno potrebbero essere le organizzazioni a delinquere come la mafia, contro cui si devono usare leggi di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie costituzionali, conservando le quali si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non colluso. Combattere la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo delle leggi di pace, e senza applicare la pena di morte, significa cercare di contrastare un esercito dotato di artiglieria pesante con un esercito equipaggiato al massimo con fucili da caccia. Poiché è impossibile estirpare la mafia con metodi democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto l’autogoverno della mafia, senza aiuti economici da parte di altre regioni. Ha scritto Aristotele (Politica) che ogni popolo ha il governo che si merita. I capi mafia continuano a comandare dal carcere ricattando guardie e direttori del carcere. La pena di morte impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare ordini. E’ altrettanto inconcepibile che non si applichi la pena di morte nei confronti dei trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la loro vita sia degna di rispetto significa corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi minano anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista di Beccaria, dovrebbero essere eliminati senza pietà. 
  

4 commenti:

marcus ha detto...

Lei ha citato alcuni dei massimi pensatori illuministi, favorevoli alla pena di morte. Oggi, invece, li vogliono ritenere favorevoli alla sua abolizione, stando ai libri propinati in tutti i licei.

Mi permetto di dissentire, e le espongo il mio modestissimo parere.
E' difficile distinguere il diritto dalla morale, essendo la morale (i sentimenti) spesso fondamento del diritto. Mi spiego meglio: ognuno giudica coi propri sentimenti. E l'odio, come la pietà, è un sentimento. Lei in un post precedente, mi sembra, aveva detto: "La giustizia è vendicativa, nella sua natura risarcitoria". Ma qua allora siamo ancora nella ambito del sentimento! La vendetta infatti è frutto del sentimento, come l'odio. Nessuno può negare un minimo di soddisfazione quando il colpevole venga giudicato e paghi la colpa. E le sentenze, di chi giudica, sono il frutto del sentimento, perché ognuno giudica da sé il colpevole. Questo perché spesso, ed inevitabilmente, la giustizia si identifica col sentimento, sia di odio sia di pietà per il colpevole. Chi giudica negativamente e con odio un colpevole, non giudica meglio di chi invece ha compassione. Questo perché ognuno giudica con i propri sentimenti e l'odio, come la compassione, è un sentimento. Anche io come lei, molto spesso, mi trovo a dover giudicare, inconsapevolmente, un colpevole con accanimento e con rancore, ma non pretendo che il mio giudizio personale e soggettivo, sia più giusto di quello di qualcun altro.
La morale ed i sentimenti corrompono la giustizia che non avrebbe altrimenti nessun senso, salvo quello di scongiurare altre possibilità che il reato possa ripetersi (ecco quale sarebbe l'unico senso della giustizia). Una volta che il danno è fatto, a che serve condannare il colpevole (come chiudere la stalla quando sono appena usciti i buoi)?

Pietro Melis ha detto...

Nessun giudice dovrebbe giudicare in base al sentimento. Se si fa prendere dal sentimento è un cattivo o pessimo giudice. Confonde la morale con il diritto. L'illuminista Kant è il massimo esempio della distinzione tra morale e diritto. E il termine "vendetta" ha assunto un significato corrotto dalla morale, cioè dal sentimento, che vede in essa solo l'attuazione di un odio contro l'offensore. E' naturale che vi sia anche dell'odio (non certamente da parte del morto in caso di omicidio ma da parte dei familiari), ma il giudice deve prescindere dall'odio perché deve solo risarcire la vittima anche se morta. Altrimenti la vita di un assassino varrebbe più di quella della vittima (se innocente). Se la vittima rimane in vita essa può anche perdonare, ma il suo perdono (dettato dal sentimento) non può valere come assoluzione per il giudice, che deve prescindere dal perdono, e perciò dal sentimento. Altrimenti basterebbe il perdono da parte della vittima per fare evitare la condanna al carcere all'offensore.
Purtroppo la scuola, ideologizzata, invece di educare, corrompe creando confusione. E questa confusione si trasmette poi nella società arrivando anche alla corruzione del diritto in magistratura. E' un circolo vizioso.

Sergio ha detto...

È paradossale che si voglia abolire la pena di morte quando ogni giorno (adesso specie in Siria) si combatte e si uccide e ben peggiori tragedie si preparano che potrebbero costare la vita a centinaia di milioni di esseri umani (sono migliaia le atomiche pronte per l'uso e contro le quali nessuno osa protestare, nemmeno il papa per non fare la figura del fesso - sta a vedere che Putin, Obama, Nethaniau ecc. smantellano il loro arsenale nucleare perché glielo chiede o lo esige il papa.
Questa è la prima contraddizione: no alla pena di morte da parte dei buonisti, sì alle atomiche che possono fare un'ecatombe, ma anche a tutte le altre terribili armi create dagli Stati (tra cui Internet per schedare questo messaggio). Si dirà: ma la guerra è un'altra cosa, bisogna uccidere per non essere uccisi. Ci sono dunque dei casi in cui uccidere è necessario: anche la morale cattolica riconosce il diritto alla legittima difesa che può causare la morte dell'aggressore.

Sergio ha detto...

Un'altra palese contraddizione è oggi la tendenza alla rinuncia del "risarcimento" da parte del colpevole (che deve risarcire la vittima e l'intera società). La restituzione del maltolto è fondamentale per il cattolico che va a confessare un furto.
Altrettanto evidente è che chi abbia commesso un furto o altri più gravi delitti (un omicidio) debba risarcire in qualche modo vittima e società a cui ha inflitto un grave vulnus). E la pena deve avere per forza carattere afflittivo, anche se la si sconta in un albergo a cinque stelle come in Olanda. Il colpevole è almeno privato della libertà.
Oggi invece è in primo piano il recupero e il reinserimento del colpevole che da aggressore passa a vittima di una società vendicativa.
Si conoscono i casi di delinquenti incalliti che recidivano, perfino uccidendo di nuovo.

Tuttavia trovo la posizione di Kant troppo rigida. È chiaro che uno come lui, con il suo carattere, la sua intelligenza e la sua posizione non ha assoluto bisogno di rubare e uccidere. Insomma non ha alcun merito ad essere buono.
Oggi tutti, anche il papa, riconosce che l'inferno è un'assurdità e in contrasto con un Dio bontà infinita (se n'era già accorto Origene già nel terzo secolo). Dante invece si delizia a inventare torture sadiche per gli abitatori del suo Inferno.
La libertà è una chimera, siamo tutti programmati per agire come agiamo, senza scampo. Io non assalirò mai una banca né ucciderò se non per legittima difesa. Ma non ho alcun merito nell'agire così.
Tuttavia bisogna riconoscere alla società il diritto di difendersi e di comminare pene commisurate alla gravità del delitto.