sabato 9 giugno 2012

O NAPOLITANACCIO! AVEVI 32 ANNI QUANDO (FACENDO GIA' PARTE DELLA SEGRETERIA DEL P.C.I E SERVO DI TOGLIATTI "IL PEGGIORE") DICESTI NEL 1956: "I CARRI ARMATI SOVIETICI HANNO RIPORTATO LA PACE IN UNGHERIA". SI', CON 20.000 MORTI E IL CAPO DEL LEGITTIMO GOVERNO IMRE NAGY IMPICCATO. QUESTA INFAMIA NON TE LA CANCELLERA' MAI NESSUNO, ARRIVISTA CAMALEONTE

Questo individuo, che siede indegnamente al Quirinale, eletto da un parlamento senza maggioranza e che dopo due anni si sciolse, continua a giustificare il suo passato cercando di discolparsi, ma, essendo uno stronzo, incapace di riflettere su ciò che dice e sulle sue conseguenze (come la richiesta di dare la cittadinanza a tutti i nati in Italia, anche se da clandestini, per cui vi sarebbe un invasione di clandistini pronti a cagare figli in Italia per dare la cittadinanza anche ai genitori, non potendosi separare il figlio dai genitori) si è dimenticato che tra i fondatori del Partito Comunista oltre a Gramsci e a Togliatti vi fu anche Nicola Bombacci, che divenne ministro dell'economia nella R.S.I. e continuò a rimanere comunista perché non vide mai una reale opposizione tra lo statalismo fascista e quello comunista, e che per questo fu fucilato a Dongo mentre gridava di fronte ai suoi assassini: viva il socialismo). Questò è già sintomo della disonestà intellettuale del Napolitanaccio. Che crede di giustificarsi dichiarando: "Sono partito dagli ideali che in gioventù ho sposato  -  più che per scelta ideologica  -  per impulso morale e sensibilità sociale, guardando alla realtà del mio paese".CHE FACCIA TOSTA. Dunque approvò la repressione ungherese con i suoi 20.000 morti anche per impulso morale e sensibilità sociale? Ma si rende conto questo individuo delle stronzate che dice? Quando la mattina dell'elezione fu eletto disgraziatamente capo dello Stato corsi alla posta per inviargli in Senato una racc. A.R. che tra l'altro (rimproverandogli l'infamia della pace portata in Ungheria con 20.000 morti grazie ai carri armati sovietici). diceva: " Lei con soli 543 voti mi rappresenta un cazzo. Si consideri al massimo rappresentante di metà degli italiani. Se avesse avuto un po' di dignità avrebbe rifiutato l'elezione". Ma tant'è. Un posto al Quirinale val bene il trasformismo di questo individuo che per fare carriera ha cambiato colore della pelle. Ma se fosse rimasto comunista degli anni duri sarebbe stato paradossalmente migliore almeno perché non avrebbe detto le stronzate che oggi quotidianamente dice seminando perle di saggezza. La storia dovrà dire tutto ciò che si merita questa sporca figura. 

IL COLLOQUIO

Napolitano: il mio cammino verso il Quirinale
"Mito dell'Urss fu anche una prigione per il Pci"

L'intervista del direttore della Gazeta Wyborcza al presidente della Repubblica. Che ripercorre 70 anni di storia italiana e ricorda i grandi nomi della politica. Senza dimenticare l'autocritica. E sul futuro dice: "Per l'Europa non ci sono alternative all'unità. In Italia dobbiamo riaffermare il concetto di solidarietà" di ADAM MICHNIK

Il dialogo che pubblichiamo tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il direttore della Gazeta Wyborcza, Adam Michnik, esce oggi in contemporanea su "Repubblica" e sul quotidiano polacco alla vigilia della visita del Capo dello Stato in Polonia. Napolitano è legato a Michnik da un'antica consuetudine, che risale agli anni in cui l'intellettuale polacco era uno degli esponenti di primissimo piano del dissenso e dell'opposizione al regime comunista.

Signor Presidente, fra alcuni giorni Lei verrà in Polonia. Che idea se ne è fatto? E gli Italiani che idea ne hanno?
"Nel nostro paese è sempre vivo il sentimento della tradizionale amicizia che ci lega ai polacchi. L'anno scorso si è celebrato il 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Abbiamo cercato di ricostruire e trasmettere il senso di quello che fu per l'Europa di quel tempo l'unificazione nazionale dell'Italia rispetto al movimento per l'indipendenza nazionale in altri paesi, e tra questi la Polonia. Ho visitato Bergamo, la città natale di Francesco Nullo  -  un esempio eccezionale di combattente per la libertà sia in Italia che in Polonia. Oggi la Polonia è considerata da noi un paese amico di vecchia data e un partner importante per l'Europa, un anello di congiunzione fra il nucleo storico dell'Europa Occidentale e quei paesi che, dopo il 1989, sono entrati a farne parte. Forse nessuno meglio di Bronislaw Geremek ha espresso una visione dell'Europa che ha nella sua diversità
una grande ricchezza e un patrimonio per il futuro. A parte i tre grandi Stati fondatori della Comunità Europea  -  la Francia, la Germania e l'Italia  -  e oltre il quarto grande paese, la Gran Bretagna poi entrata a farne parte, oggi la Spagna da un lato e la Polonia dall'altro sono diventati e possono diventare ancora, più di altri, protagonisti fondamentali nell'Unione Europea.

Ci siamo conosciuti 35 anni fa. Sono venuto a trovarLa a Roma quando ero, all'epoca, ufficiosamente ambasciatore del Comitato di Difesa degli Operai in Occidente.
"Me ne ricordo perfettamente".

Ho pensato allora che Lei aveva iniziato da comunista ad opporsi al fascismo. Poi si è fatto strada: è stato eletto presidente dell'Italia democratica. Che cosa pensa quando ripercorre tale periodo?
"Il sentiero della mia vita è un processo passato attraverso prove ed errori. Sono partito dagli ideali che in gioventù ho sposato  -  più che per scelta ideologica  -  per impulso morale e sensibilità sociale, guardando alla realtà del mio paese. Nell'arco dei decenni, ho cercato di andare al di là degli schemi entro i quali all'inizio era rimasta chiusa la mia formazione. Ho attraversato delle revisioni profonde, molto meditate e intensamente vissute. Ho riassunto questo mio percorso nel titolo della mia autobiografia Dal Partito Comunista Italiano al socialismo europeo. Le ultime parole del mio libro (uscito nel 2005), nelle quali ancora mi riconosco, sono state che per l'età che avevo ero destinato 'alla testimonianza e alla riflessione'. Non immaginavo che poco dopo sarei stato richiamato in servizio! Finivo dicendo "è il tempo del ricordo affettuoso dei tanti con i quali ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato via via di correggere errori, di esplorare strade nuove".

Capisco che, parlando di errori, Lei intende il periodo staliniano?
"Intendo il periodo in cui ero membro attivo di un Partito Comunista che non era un partito stalinista come molti altri in quanto aveva una fondamentale matrice antifascista e democratica e comprendeva forti componenti liberali, ma era pur sempre nato nel solco dell'Internazionale Comunista, e quindi portava nel suo Dna il mito dell'Unione Sovietica e il legame col movimento comunista mondiale. Questi elementi originari, a un dato  momento, sono diventati una prigione dalla quale il Pci doveva liberarsi".

Ho avuto sempre la sensazione che il Partito Comunista Italiano fosse diverso dagli altri. Ho seguito le pubblicazioni dei comunisti italiani. Vorrei chiederLe di alcuni personaggi. Parliamo prima di Antonio Gramsci.
"Gramsci, gravemente malato, era stato trasferito dal carcere in una clinica dove morì nel 1937. Per un giovane come me, nato nel 1925 nell'Italia fascista, il suo nome era totalmente sconosciuto. Per tutti coloro che in Italia si occupavano di politica, e anche per il mondo della cultura, Gramsci, a partire dal 1946-47, rappresentò una grande scoperta. Prima furono pubblicate le sue Lettere dal Carcere e poi tutte le sue note ne I quaderni, che lo hanno rivelato come uno dei più forti e originali pensatori del XX secolo, lontano dal dogmatismo, e molto attento ad ogni aspetto della storia d'Italia e della storia internazionale".

E Palmiro Togliatti?
"Compagno di studi all'università di Torino di Antonio Gramsci, fu con lui tra i fondatori del Partito Comunista Italiano. Con l'avvento del fascismo visse fuori d'Italia  -  in Francia, e soprattutto nell'Urss. Fu un campione di 'Realpolitik'. Costruì un partito di notevole rilievo e conservò la sua autonomia nel mondo comunista, però non ruppe mai il legame con l'Urss. All'avvento di Kruscev, e rispetto alla famosa pubblicazione del suo rapporto segreto, Togliatti mostrò sconcerto e anche diffidenza verso il nuovo leader sovietico. Tuttavia egli fu spinto da alcuni dirigenti del partito  -   faccio due nomi, Giancarlo Pajetta e Giorgio Amendola, non ancora cinquantenni, che erano considerati 'giovani promesse' del partito  -  ad abbracciare la linea della destalinizzazione".

Vorrei chiederLe dell'anno 1956. Da un lato apparivano sentimenti antistaliniani nel partito, dall'altro si verificava l'appoggio all'intervento sovietico a Budapest.
"Innanzitutto fu una tragedia, anche per il Pci, un errore grave e clamoroso del gruppo dirigente, a partire da Togliatti. Poi, anche prima che si ammettesse l'errore, si comprese la lezione: per cui, quando nel 1968 (Togliatti era già deceduto da 4 anni) ebbe luogo l'intervento armato dell'Urss e degli altri paesi del blocco sovietico in Cecoslovacchia, il Pci ufficialmente si schierò contro quell'intervento".

Nel 1968 ero in prigione, dove l'unica fonte di informazione era il giornale ufficiale del Partito Trybuna Ludu. Quando lessi che tale intervento era stato appoggiato dal Partito Comunista del Lussemburgo, mi resi conto subito che il Pci si era opposto.
"Altrimenti un comunicato di appoggio del Pci sarebbe certamente apparso sul giornale".

Naturalmente, in prima pagina, e loro si vantarono del Lussemburgo. Ancora un nominativo: Ignazio Silone.
"Silone ci riporta al periodo oscuro del fascismo. Ignazio Silone era un comunista, che lasciò il partito e diventò fondamentalmente un socialdemocratico. Dopo l'apertura degli archivi fascisti, apparvero documenti che lo indicavano come un collaboratore della polizia fascista. Una sentenza definitiva sul piano storico non è stata possibile".

Quali erano, nel periodo dell'eurocomunismo, dalla metà degli anni settanta, i rapporti fra la direzione del Pci e i dirigenti sovietici? Come reagì il partito al rifiuto del modello sovietico da parte di alcuni partiti comunisti?

"In quel periodo iniziarono forti tensioni. C'era una grande preoccupazione tra i dirigenti sovietici che, se non accusarono il Pci di tradimento, poco ci mancò. In quel periodo venne pubblicata in Italia la storia dell'Unione Sovietica di Giuseppe Boffa, uno storico comunista italiano. Nell'Urss venne tradotta solo per i membri del comitato centrale, perché si pensava che solo le persone "vaccinate" potessero leggerla (fu poi Gorbacev che la fece pubblicare normalmente). La direzione del Pcus elaborò un documento nel quale alcuni dirigenti del partito italiano furono accusati, insieme a Boffa, di antisovietismo. Tra quei nomi c'era anche il mio. Per fortuna vivevo in Italia".

Ha mai parlato con Breznev?
"Mai".

Con chi della direzione sovietica ha parlato?
"Con Michail Suslov, il grande ideologo. Indubbiamente era un uomo molto intelligente, ma schematico e duro. Non si spostava minimamente dalle sue posizioni. Ho incontrato anche Boris Ponomariov, personaggio meno importante, che nel Pcus si occupava dei rapporti con gli altri partiti comunisti. Se Suslov era considerato l'ideologo, Ponomariov ne era il fedele esecutore. Naturalmente ho avuto a che fare, anche in seguito, con personaggi interessanti dal punto di vista intellettuale".

Con Gorbacev?
"Gorbacev venne in Italia ai tempi di Breznev, ma allora non mi incontrai con lui. Ritornò anche nel 1984 per il funerale di Enrico Berlinguer, quando ancora non era segretario generale del Pcus. In seguito, lo incontrai  parecchie volte in Italia: in una di quelle occasioni,  sottolineò che era stato molto influenzato dall'eurocomunismo del Pci. Quando, nel 1987, andai a Mosca accompagnando il segretario generale del Pci di allora, Alessandro Natta, successore di Berlinguer, parlammo con Gorbacev per sei ore. Egli ci espose il suo progetto e disse che era convinto che nell'Urss si dovesse creare uno Stato di diritto. Lo interruppi e gli chiesi se la traduttrice avesse capito bene le sue parole - ed egli le confermò. Probabilmente non si rese conto dei cambiamenti radicali che avrebbe implicato la creazione di uno Stato di diritto nel suo paese".

Che tipo di uomo era Berlinguer?
"Di carattere era molto discreto, riservato e severo, tratti comuni e tipici del temperamento sardo. Era una persona molto seria che faceva politica in maniera molto rigorosa. Era arrivato fin sull'orlo della rottura con il Pcus, ma lì si fermò. Penso che temesse che il Pci, un grande partito di massa e popolare, se avesse in qualche modo rinnegato la propria origine, si sarebbe diviso e disgregato. A mio avviso, il grande equivoco fu quello del carattere rivoluzionario del partito. Secondo questa visione mitica, il partito non poteva rinunciare all'idea di un'altra società, di un altro sistema. Berlinguer, che pure era profondamente legato a tutte le conquiste democratiche e che dimostrò di difenderle tenacemente quando esse, in Italia, erano in pericolo, riteneva che il Pci dovesse essere portatore di una idea (o di una utopia) di un diverso sistema economico e sociale, di un socialismo radicalmente alternativo al capitalismo".

Quando si è consolidata la convinzione che il modello sovietico era semplicemente una dittatura?
"Berlinguer ne appariva consapevole già negli anni '70. Ma questa convinzione coesisteva in qualche modo con la fiducia nell'utopia di cui ho detto, e in palese contrasto con essa. Berlinguer manifestò un grandissimo coraggio, quando nel 1977 andò al congresso del Pcus a Mosca per dire (è una sua frase famosa) che 'la democrazia è un valore universale'. L'affermazione fu un colpo fortissimo all'edificio ideologico, propagandistico, creato intorno all'Urss. Ma Berlinguer esitò a trarne tutte le conseguenze".

E Lei, quando ha pensato che il modello sovietico non era quello che ci voleva?
"A partire da Dubcek: la Primavera di Praga fu per me assolutamente rivelatrice".

Come sono state, nella politica italiana, le relazioni tra il mondo cattolico e quello laico.
"Hanno assunto una nuova prospettiva ai tempi della lotta contro il fascismo. Esisteva allora nel cattolicesimo una importante corrente antifascista, con personaggi come Alcide de Gasperi che ancora prima della Grande Guerra ('14-'18) si era affermato come deputato nel Parlamento di Vienna, dove rappresentava gli interessi della popolazione italiana del Trentino. Ai tempi del fascismo fu completamente emarginato e riparò in Vaticano. Vi fu poi un secondo momento di avvicinamento tra democratici cattolici e laici, con la generazione successiva, più giovane, di cattolici avvicinatisi alla politica democratica  nell'Assemblea Costituente del 1946,  partecipando ai lavori sulla legge fondamentale. La nostra Costituzione è stata scritta da molte mani, e un ruolo importante vi hanno svolto menti e mani cattoliche, come Amintore Fanfani e, meno noto ma molto importante, Giuseppe Dossetti, più di sinistra".

Una formula a suo tempo popolare, anche in Polonia, era stata il "compromesso storico" (nel testo polacco il termine viene usato in italiano e in polacco). In che cosa consisteva - fu un'idea del partito comunista con la democrazia cristiana?
"Se dovessi definirlo in termini europei, lo chiamerei semplicemente un progetto di grande coalizione. Ma nel concetto di 'compromesso storico' c'erano molte sovrastrutture ideologiche. E il Partito Comunista Italiano, e soprattutto Berlinguer, per giustificare la prospettiva di alleanza politica e di governo con i democristiani, elaborarono una idea di possibile confluenza tra i valori cattolici e i principi socialisti. A mio avviso, questa visione ideologica rappresentò un elemento di debolezza. Infatti, quando dal 1976 al gennaio 1979 i comunisti e i democristiani collaborarono in Parlamento, da parte della Democrazia Cristiana la giustificazione di tale stato delle cose fu puramente politica. Ricordo che nel 1976 il Pci ottenne un ottimo risultato elettorale, il 34% ; i democristiani invece persero un po' di terreno prendendo il 38%. Aldo Moro, leader della Democrazia Cristiana, affermò : "Ci sono due vincitori" e lavorò perché raggiungessero un accordo. I leader del partito comunista dal canto loro sostennero che bisognava trovare una intesa per vincere il terrorismo interno e l'inflazione galoppante che minacciavano il Paese. In effetti, da ambedue le parti le motivazioni furono politiche, così come furono politici i motivi di chiusura di questa fase della vita politica e di rottura di quell'accordo ; e risultò artificiosa l'impalcatura ideologica del 'compromesso storico'. Per il Pci divenne insostenibile l'appoggio al governo (interamente democristiano) restandone fuori, anche se con possibilità di influire sulle sue decisioni. Questa era una posizione molto scomoda, 'in mezzo al guado' come allora si diceva. E d'altra parte la Democrazia Cristiana non arrivava ad accettare la partecipazione del PCI al governo".

Quello fu in Italia tempo di assassinii politici, di attentati  -  gli anni di piombo (termine usato in italiano e in polacco). Da dove derivava questo piombo?
"Ogni anno si svolge in Italia una giornata di commemorazione delle vittime del terrorismo, sulla base di una legge adottata dal Parlamento, e ho voluto sempre celebrarla in Quirinale. Negli anni di piombo confluirono due componenti molto diverse. Da un lato gruppi di estrema destra, neofascista, con appoggi nell'apparato dello Stato, diventati attivi dopo il 1968, dopo la grande ondata dei movimenti sindacali che avevano ottenuto rilevanti conquiste sociali, e nello stesso tempo, di fronte al pericolo che il Pci diventasse sempre più forte e giungesse al governo. Con la  cosiddetta "strategia della tensione", queste forze eversive compirono terribili attentati per destabilizzare il Paese,  bloccare i sindacati e il partito comunista. Per anni si protrassero indagini e processi il cui obbiettivo era scoprire e punire i colpevoli, ma spesso senza risultati concreti (condanna dei responsabili). Però è risultato chiaro  -  dagli stessi processi  -  che erano i  gruppi neofascisti, che godevano di sostegno nei servizi segreti e nell'apparato dello Stato, gli attori di quella strategia eversiva. La seconda componente fu l'estremismo di sinistra".

Le Brigate Rosse?
"Ancor prima delle Br, hanno operato gruppi politici come Potere Operaio, che respingevano ogni compromesso, e giudicavano che nessuna conquista operaia fosse soddisfacente. Finirono per porsi obbiettivi di violenza rivoluzionaria. Ad un certo momento i gruppi neofascisti erano stati bloccati e non poterono più esercitare la pressione di cui ho parlato (anche se nel 1980 ci fu l'attacco terroristico di Bologna, di matrice ancora neofascista). Divennero molto più pericolose, durante tutti gli anni '70,  le formazioni terroristiche dell'estrema sinistra, e tra queste crebbero grandemente le Brigate Rosse".

Rossana Rossanda, giornalista, già una delle leader del Pci, ha scritto: "Quando leggo le dichiarazioni delle Brigate Rosse è come se leggessi i miei appunti del diario da ragazzina".
"E' una intellettuale di tutto rispetto, ma da 30 anni non siamo d'accordo su nulla".

Ma le dichiarazioni delle Brigate Rosse non erano per caso una caricatura delle dichiarazioni comuniste dei primi anni '50?
"Erano molto più rozze. Comunque, una caricatura sanguinosa".

Sono d'accordo. E il suo percorso?
"Sono stato uomo di partito impegnato in politica attiva. Ma allo stesso tempo per 38 anni sono stato impegnato nelle istituzioni, come deputato italiano e successivamente, soprattutto dal 1999 al 2004, membro del Parlamento Europeo. Divenni via via sempre di più un uomo delle istituzioni. Ho svolto diverse funzioni nel Parlamento italiano, e anche un ruolo nelle relazioni internazionali (sono stato per dieci anni nell'Assemblea parlamentare della Nato). Nel 1992 sono stato eletto Presidente della Camera dei Deputati. Poi nel Parlamento Europeo sono stato Presidente della Commissione Affari Costituzionali. Da questo percorso di uomo delle istituzioni è poi scaturita la mia elezione a Presidente della Repubblica. E l'esperienza da me maturata in Parlamento mi ha preparato a poter svolgere la mia funzione attuale, come faccio ormai da sei anni, in quanto garante di imparzialità e promotore dei principi e dei valori della Costituzione".

In tutti i Paesi europei abbiamo a che fare con la corruzione. E' un elemento ineliminabile dall'ordine democratico, dall'economia di mercato? Come cavarsela?
"Nessuno di noi pensa alla vita pubblica come a un idillio. Alcuni rischi, alcune sorgenti di corruzione non sono eliminabili. Ma certamente possono esserne seriamente limitate le dimensioni e l'ampiezza, rafforzando i controlli e le sanzioni. Tuttavia, una questione io sento molto in Italia: la corruzione si estende anche perché l'attuale modo di fare politica ha perso la forza degli ideali, i principi morali e la dimensione culturale".

Ma ciò non riguarda solo l'Italia.
"Sì, la politica oggi è in affanno in tutta Europa. In Italia constato un particolare impoverimento culturale e morale della politica. Vi sono naturalmente molte differenze, non tutti i partiti sono da mettere sullo stesso piano, ma l'atmosfera generale è che la politica è diventata troppo contesa per il potere, disbrigo di affari correnti, personalismi, e questo è un clima nel quale può prosperare la corruzione".

La classica divisione tra destra e sinistra è ancora viva oggi? O forse è più importante la divisione tra una società aperta e quella chiusa?
"Bisogna ripensare le vecchie categorie. Vediamo l'Austria o l'Olanda, dove i partiti della sinistra, della destra e del centrodestra prendevano complessivamente il 70% dei voti, mentre oggi raccolgono si e no il 50%. Avvengono notevoli cambiamenti in paesi fino ad ora stabili, come la Germania, dove adesso vi sono cinque partiti e si è aggiunto perfino un Partito dei Pirati. Sono fenomeni di rottura dei vecchi equilibri. E poi c'è il preoccupante fenomeno di partiti populisti come il Partito dei Veri Finlandesi. C'è da ripensare molto della esperienza dello scorso secolo".

Quale sarà il futuro dell'Unione Europea?
"Non c'è alternativa all'unità. Mi è rimasta in mente l'opinione espressa un mese fa da Angela Merkel durante l'incontro con il nostro premier Mario Monti e con me: dobbiamo capire che gli europei costituiscono appena il 7% della popolazione mondiale; o riusciamo ad operare uniti o diventiamo irrilevanti. E' molto importante che l'abbia detto la leader della Germania, paese in cui potrebbe facilmente trovare terreno l'illusione dell'autosufficienza. Invece nemmeno il paese europeo più popoloso, dinamico e competitivo può contare davvero nel mondo se non si integra con gli altri paesi dell'Unione. Penso che il futuro dipenderà dalla piena consapevolezza che ne avranno tutti i governi nazionali, e dipenderà dalla loro volontà e capacità di condividerla con i cittadini, con gli elettori".

L'ultima domanda: che cos'è il berlusconismo?
"Con le definizioni e le categorie bisogna andarci sempre molto cauti. Si è parlato di berlusconismo come di un certo modo di fare politica e conquistare l'elettorato. Sia nella storia che nella politica vi sono cicli che si sviluppano e poi si esauriscono. Berlusconi ha compreso che non poteva continuare a reggere il governo: si è reso conto della crisi, dell'impossibilità di continuare come prima, e si è collocato in una posizione molto più distaccata".

E al di là del cambiamento di governo?
"Altra questione importante è che nella società italiana debbono rafforzarsi certi valori, offuscatisi negli ultimi anni, e che hanno molto a che fare con la visione della politica, le sue basi culturali e morali. Innanzitutto, in Europa, così come in Italia, è molto importante che si riaffermi il concetto di solidarietà. Adam Michnik conosce bene questa parola".

La ringrazio molto, Signor Presidente. L'ho affaticata.
"Un po'. Anche perché abbiamo parlato non tanto di attualità, quanto di complesse vicende del passato".
 
(09 giugno 2012) 

1 commento:

Giovanni ha detto...

Caro professore,
le riporto qui di seguito un articolo scritto da me l'anno scorso sul mio blog (ora non più attivo).


Le avventure di Napolitano

È di alcuni giorni fa una notizia su Napolitano di un episodio risalente a cinquant'anni fa, al 1960 esattamente. Su 'Sette', l'inserto del “Corriere della Sera”, Gian Antonio Stella ci informa che uno scandalizzato Napolitano sollecitava l'intervento dell'allora ministro delle Finanze, Giuseppe Trabucchi, contro quei ricchi che alla Prima della Scala di Milano avevano fatto sfoggio, a parer suo, di costosissimi gioielli. Era il 7 dicembre, giorno in cui si festeggia la ricorrenza di sant'Ambrogio, patrono di Milano.

Napolitano, allora trentacinquenne, pur presente alla Scala insieme agli altri, riteneva che non si potessero possedere beni di così grande valore senza che si evadesse il fisco.

La veemenza con cui fu lanciata la 'pietra dello scandalo' da parte dell'immarcescibile Napolitano, scosse il Palazzo del ministro delle Finanze al punto che questi si preoccupava subito di diramare una circolare in cui si diceva: “Si ricorda agli uffici preposti agli accertamenti fiscali la possibilità di valutare fiscalmente, agli effetti dell'imposta complementare, le esibizioni di lusso”.

Un altro uomo politico che non fosse Napolitano, si sarebbe ritenuto soddisfatto del risultato della sua denuncia e avrebbe chiuso lì la questione. Un altro uomo, ma non Napolitano! Poteva mai il nostro novello Robin Hood, divorato dal sacro fuoco dell'egualitarismo, permettere che il ministro se la cavasse così a buon mercato?! Non fosse mai! E allora che ti fa il nostro comunista che si piccava di vestire all'inglese? Rincara la dose diramando un documento del P.C.I., con in testa la sua firma, di questo tenore: “Non era necessario attendere la 'Prima della Scala' e le reazioni di una parte dell'opinione pubblica e degli organi di stampa, che vi sono alti redditi e sfrenati consumi voluttuari -vero insulto alla miseria di tanta parte del popolo italiano- da colpire con severe ed efficienti misure fiscali”.

L'articolo di Gian Antonio Stella riporta altri brani della polemica aperta da Napolitano, ma penso che quelli segnalati siano già sufficienti per poter capire la psicologia del personaggio, anche perché vorrei che di lui si ricordassero ancora un paio di cose risalenti sempre all'epoca in cui spacciava il suo parossismo di comunista fanatico per difesa degli oppressi.



Correva l'anno 1956 e l'URSS con un colpo di mano invadeva l'Ungheria, reprimendo nel sangue la rivolta di quanti volevano liberarsi dal giogo sovietico. Napolitano così giustifica l'intervento militare dell'URSS: “L'occupazione dell'Ungheria da parte dell'esercito sovietico è garanzia di pace”. Né d'altronde espresse dissenso quando l'URSS invase la Cecoslovacchia nel 1968. La repressione fu violenta, tanto che Jan Palach, studente praghese, per protestare contro quella occupazione, si diede fuoco in Piazza Venceslao.

Invece appartengono alla fase meno ideologica del Nostro alcuni episodi più vicini a noi, e che ci consegnano al di là di ogni ragionevole dubbio un uomo dal carattere sfuggente e borioso.

E' inutile che mi dilunghi ad illustrarveli io, visto che la sul web se ne conserva memoria. Eccovi i link:

http://www.scuolanticoli.com/libri/Baratto/Il%20Baratto.doc

http://www.youtube.com/watch?v=8L-e5Cvm-wQ


A proposito, forse non tutti sanno che alla Prima della Scala del 7 dicembre scorso, Napolitano, costretto dagli ultimi avvenimenti a seguire il Don Giovanni di Mozart con il pensiero rivolto a tutti quegli italiani che la manovra economica ha ridotto in povertà, non ha potuto rendersi conto di essere attorniato da impenitenti evasori fiscali!
Pubblicato da Il Disfattista il 12/22/2011 07:35:00